Le rughe sulla proboscide degli elefanti nascondono una storia incredibile: la scoperta
Perché la proboscide degli elefanti ha le rughe e per quale motivo non sono mai uguali? La nuova scoperta su questa affascinante specie
Gli elefanti sono animali piuttosto “comuni” nell’immaginario di ognuno. Li conosciamo sin da bambini, ci colpiscono per la loro imponenza ma anche per l’aspetto particolare. Su tutte le caratteristiche che li riguardano, la proboscide è senza dubbio quella che resta impressa. Eppure c’è qualcosa che ancora non sapevamo a tal proposito: come mai è così rugosa? Risponde a questa domanda un nuovo studio pubblicato sulla rivista The Royal Society – Open Science.
Il nuovo studio sulla proboscide degli elefanti
Perché la proboscide dell’elefante è così rugosa? Sembra insolito che un team di ricercatori si concentri su una simile domanda, eppure l’articolo Elephants develop wrinkles through both form and function cerca proprio di dare una risposta a un quesito solo in apparenza “banale”. Lo studio ha preso le mosse da un precedente lavoro di ricerca a opera di un team guidato da Michael Brecht, neurobiologo dell’Università Humboldt di Berlino.
Studiando il cervello degli elefanti africani della savana (Loxodonta africana) e degli elefanti asiatici (Elephas maximus), i ricercatori hanno notato su ciascuno dei tronchi encefalici una protuberanza grande quanto una fava. “È molto insolito. Sembra molto diverso da tutti gli altri mammiferi. Ha questo aspetto striato“, ha affermato Brecht. A un’osservazione più attenta, il team si è reso conto che il numero di strisce – che poi non sono altro che fasci di fibre nervose – corrispondeva esattamente al numero delle rughe sulla proboscide.
Così Brecht e il suo team hanno cominciato a raccogliere più fotografie possibili di feti di elefante per esaminare lo sviluppo della proboscide: “È una parte del corpo che cresce incredibilmente in fretta, più di qualsiasi altra. Ecco perché diventano elefanti invece di un normale mammifero con un piccolo naso come noi”, ha spiegato Brecht.
Cosa ci dicono le rughe della proboscide sugli elefanti
Le osservazioni, a quel punto, sono andate avanti. Dopo un paio di mesi di sviluppo, il tronco encefalico fetale presentava circa quattro pieghe, salvo poi crescere improvvisamente: ogni 20 giorni il numero delle rughe raddoppia, poi dopo qualche altro mese tornano a rallentare.
“Gli elefanti africani aggiungono solo relativamente poche rughe in età adulta. Negli elefanti asiatici, si aggiungono notevolmente più rughe”, ha affermato Brecht, ponendo l’accento su una questione. È probabile che questa differenza sia dovuta ai differenti modi di usare la proboscide. Gli elefanti africani tendenzialmente usano la punta della proboscide per toccare gli oggetti, ma anche raccoglierli e manipolarli. Quelli asiatici, invece, tendono a usare questo “strumento” in modo più avvolgente quindi è probabile che il maggiore numero di rughe contribuisca a fornire la pelle in più necessaria per questo tipo di azione. In sostanza per renderla più flessibile.
E poi c’è anche differenza tra gli elefanti che usano la proboscide a sinistra e quelli che la usano a destra: anche il modo in cui la muovono, quindi la direzione, potrebbe influenzare la quantità delle rughe come la loro disposizione.
Perché si continua a studiare la proboscide degli elefanti
Maëlle Lefeuvre, dottoranda in ecologia comportamentale presso l’Università Jagellonica di Cracovia, è convinta che continuare a studiare la proboscide degli elefanti sia importante non solo ai fini della conoscenza delle specie in questione, ma anche per eventuali applicazioni di tipo ingegneristico.
“La proboscide dell’elefante è stata molto studiata, perché cerchiamo di capire come possiamo creare cose che siano forti senza alcun supporto duro”, ha spiegato. La Lafeuvre sostiene, ad esempio, che comprendere la formazione e la funzione delle rughe sulla proboscide degli elefanti potrebbe aiutarci a progettare una macchina flessibile e potente a forma di tronco o anche un braccio robotico.
Ricerche come quelle di Brecht e del suo team hanno, però, dei limiti. C’è chi ha osservato, ad esempio, che nello studio non è stata inclusa una specie come l’elefante africano delle foreste (Loxodonta cyclotis), e ancora che gli esemplari tenuti in considerazione per l’analisi sono nati e cresciuti in cattività, con la possibilità che non mostrino “l’intera gamma di possibili comportamenti che potrebbero essere osservati nella popolazione selvatica”.