SCIENZA

Andiamo incontro a una diaspora climatica nel 2025, colpirà sempre più persone

A partire dal 2025 è prevista una vera e propria "diaspora climatica" a causa degli eventi meteorologici estremi che fanno fuggire le persone dai territori a rischio

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La crisi legata al clima spinge sempre più persone a emigrare, abbandonando le loro case e le terre distrutte da eventi climatici estremi.

Stiamo andando incontro a una vera e propria “diaspora climatica” che già dal 2025 inizierà a definire la sua vastità: cosa fare?

Le migrazioni causate dal cambiamento climatico

Le migrazioni climatiche sono destinate a diventare una realtà sempre più pressante nel prossimo futuro, con il 2025 che segnerà un punto di svolta. Eventi meteorologici estremi, dall’innalzamento del livello del mare a siccità devastanti, stanno già spingendo milioni di persone a lasciare le proprie case.

La comunità globale, però, appare impreparata ad affrontare un fenomeno che si preannuncia come uno dei più grandi esodi della storia umana. Secondo stime recenti, entro il 2070 circa un quinto del pianeta potrebbe diventare inabitabile per le normali attività umane, con potenziali spostamenti forzati di 3,5 miliardi d’individui. L’innalzamento dei mari, da solo, potrebbe costringere 410 milioni di persone a migrare entro il 2100. Questi dati non sono proiezioni lontane nel tempo, ma un problema che si sta già manifestando: nel 2022, ad esempio, le alluvioni in Pakistan hanno colpito 33 milioni di persone, distruggendo oltre 9 milioni di ettari di terreni agricoli.

Le migrazioni causate dal clima, al momento prevalentemente interne ai confini nazionali, sono destinate a superare tali limiti. Regioni vulnerabili, come le isole del Pacifico, stanno già subendo le conseguenze più gravi, nonostante contribuiscano in misura minima alle emissioni globali di gas serra. Questo squilibrio mette in evidenza una profonda ingiustizia: le comunità con minori risorse, spesso le meno responsabili della crisi climatica, pagano il prezzo più alto.

La crisi climatica, purtroppo, non conosce barriere geografiche o sociali. L’Europa ha sperimentato il suo lato più brutale durante l’estate del 2022, con ondate di calore che hanno causato oltre 61.000 vittime in un continente storicamente impreparato a tali temperature. Negli Stati Uniti, le disparità storiche amplificano gli effetti del cambiamento climatico: quartieri precedentemente soggetti a segregazione razziale sono oggi più vulnerabili alle inondazioni, con il 25% di case a rischio rispetto ad altre aree urbane.

Ignorare il problema non farà che peggiorarlo: la necessità di politiche proattive e coordinate è urgente. Un esempio è il New Jersey, che ha acquistato centinaia di proprietà in aree soggette a inondazioni per evitare nuove costruzioni e ripristinare le zone colpite alla loro funzione naturale. Parallelamente, le isole del Pacifico, come Kiribati, stanno investendo nell’acquisto di terreni in altri Paesi, ad esempio nelle Fiji, per garantire uno spazio sicuro ai propri cittadini.

Come arginare la “diaspora climatica”

Preparare le aree meno vulnerabili a diventare rifugi per chi è costretto a migrare sarà una priorità sempre più centrale. L’adozione di politiche inclusive è fondamentale per evitare che il fenomeno della “diaspora climatica” alimenti xenofobia e tensioni sociali. Il Pacific Regional Framework on Climate Mobility, approvato nel 2023 da 18 nazioni insulari, rappresenta un primo passo per garantire i diritti dei migranti climatici attraverso accordi di cooperazione e supporto regionale.

La crisi, tuttavia, non riguarda solo i Paesi in via di sviluppo. Negli Stati Uniti, il 75% degli acquirenti di case dichiara di evitare zone ad alto rischio climatico, come quelle soggette a incendi boschivi, che minacciano oltre 30 milioni di abitazioni. Nel 2023, il cambiamento delle tariffe per l’assicurazione contro le inondazioni ha reso molte proprietà inaccessibili, con aumenti fino al 1.000% in alcune aree della Louisiana.

Il 2025 segnerà probabilmente l’inizio di una nuova consapevolezza: ricostruire abitazioni in aree vulnerabili, come fatto in passato, sarà considerato insostenibile. Non si tratta di una scelta tra restare o partire: è una necessità imposta dalle circostanze. L’abbandono di case, terre e comunità non sarà privo di conseguenze culturali, sollevando interrogativi profondi su cosa significhi oggi il concetto di “casa”.

La “diaspora climatica” inizia già a rimodellare società ed economie, spingendoci a ripensare radicalmente politiche e infrastrutture. L’inazione non è più un’opzione: affrontare il fenomeno richiede strategie innovative, capaci di bilanciare equità, sostenibilità e resilienza per un futuro che, inevitabilmente, sarà segnato dalla mobilità.

 

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