SICUREZZA INFORMATICA

Perché hanno arrestato proprio Pavel Durov

L'arresto di Pavel Durov non è solo una complicata questione giudiziaria: è l'ultimo atto di uno scontro tra libertà e sicurezza che va avanti ormai da troppi anni

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La notizia tech delle ultime 24 ore, che in realtà potrebbe avere delle ripercussioni enormi sulla vita quotidiana di tutti noi, è quella dell’arresto in Francia del fondatore e CEO di Telegram, Pavel Durov. L’accusa, tradotta in un reato italiano, sarebbe quella di favoreggiamento di crimini gravissimi come la pedopornografia, il terrorismo, il traffico di droga e armi, la frode.

Durov da diversi anni vive e opera a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, ha diverse cittadinanze, tra le quali quella russa (è nato in Russia, da padre russo e madre di origini ucraine) e quella francese.

L’arresto in Francia ha "svegliato" l’interesse della Russia nei confronti del suo cittadino, motivo per cui il Console russo a Parigi ha chiesto chiarimenti sull’arresto e l’ambasciata russa ha protestato formalmente perché la Francia "non collabora".

Perché hanno arrestato Pavel Durov

La Francia accusa formalmente Pavel Durov di aver creato una piattaforma, Telegram, dotata di strumenti che permettono ai criminali di comunicare tra loro e organizzarsi in pieno anonimato.

Telegram inoltre, non effettuerebbe alcuna moderazione interna, né avrebbe alcun filtro automatico per bloccare le conversazioni, anche private, in cui si parla apertamente di droga, armi e crimini vari.

Infine, e forse è proprio questo il cuore delle accuse, Telegram non collabora mai con le autorità giudiziarie "aprendo" le chat Telegram degli imputati nei processi. Nemmeno quelle degli imputati per terrorismo, strage e altri crimini gravissimi.

Chat nelle quali, ovviamente, gli inquirenti potrebbero trovare prove schiaccianti della colpevolezza dei sospetti e informazioni utili per prevenire ulteriori crimini.

A poche ore dalla notizia dell’arresto di Durov, l’azienda Telegram ha pubblicato una dichiarazione ufficiale su X e ha ribadito che la piattaforma rispetta la normativa europea, in particolare il regolamento DSA che prevede rigide norme di moderazione automatica dei contenuti.

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Telegram, inoltre, afferma che "E’ assurdo che una piattaforma o il suo titolare siano responsabili per gli abusi perpetrati da altri su quella piattaforma".

Tuttavia, non possiamo non ricordare che proprio il regolamento DSA ha, tra i suoi autori e strenui promotori, il Commissario Europeo per il Mercato Interno, Thierry Breton, che è francese.

Perché Durov e non Zuckerberg

Oggi Telegram è una piattaforma da oltre 900 milioni di utenti nel mondo. Un numero che fa quasi paura, ma che sparisce di fronte ai 2,3 miliardi di utenti di WhatsApp.

La piattaforma di Meta è oggi l’app di chat più usata al mondo ed è dotata di una crittografia superiore a quella di Telegram: se su Telegram le chat sono criptate solo su richiesta degli utenti (che devono aprire una "chat privata" per attivarla), su WhatsApp la crittografia è attiva di default, su tutte le chat, individuali e di gruppo.

C’è da chiedersi, dunque, per quale motivo i criminali preferiscano Telegram a WhatsApp e perché, di conseguenza, le autorità nazionali di mezzo mondo ce l’abbiano tanto con Durov e non con Zuckerberg.

Una possibile risposta a questa domanda l’ha data lo stesso Pavel Durov, nell’ottobre del 2022, con un pesantissimo post di accusa nei confronti di WhatsApp e di Meta. All’epoca, senza mezze parole, Durov disse che WhatsApp è uno strumento di sorveglianza di massa.

A conferma di queste gravissime accuse, Durov portò ad esempio la scoperta (e successiva correzione) di due gravi falle di sicurezza nel codice di WhatsApp che permettevano, a chi le conosceva, di spiare le chat criptate.

Secondo Durov, però, tali bug in realtà erano delle vere e proprie "back door", dei difetti intenzionali ben noti a Meta e lasciati lì proprio per permettere alle autorità americane di spiare le chat senza coinvolgere direttamente l’azienda di Zuckerberg nelle indagini.

Secondo Durov, in pratica, ci sarebbe una sorta di accordo di quieto vivere tra Meta e il governo americano: la prima continuava a lavorare dicendo agli utenti che le chat di WhatsApp sono private e segrete, il secondo la lasciava lavorare intervenendo di nascosto all’occorrenza, sfruttando le back door.

Chiaramente queste accuse hanno causato l’indignazione di Meta, che ha smentito ogni tipo di back door volontaria nel codice di WhatsApp e ha ribadito la sicurezza dell’app e della piattaforma.

Non c’è solo Telegram: il caso Apple

Ma non ci sono solo Telegram e WhatsApp nel mercato delle app di chat: in USA l’app più diffusa tra i possessori di smartphone iPhone è Apple iMessage ed è anch’essa criptata end-to-end.

Ha fatto storia il caso dell’iPhone di Syed Rizwan Farook, uno dei due attentatori della strage di San Bernardino, nel 2015, nella quale morirono 14 persone.

L’FBI all’epoca chiese ad Apple di fornire una backdoor per accedere ai messaggi del sospettato, ma Apple si rifiutò di concederla affermando che la privacy degli utenti è un valore fondante per la mela morsicata.

Ad un certo punto, però, l’FBI dichiarò di essere riuscita a violare l’iPhone del terrorista e di aver trovato le prove che cercava. Lo fece rivolgendosi ad una società di cybersicurezza australiana, Azimuth Security, che aveva trovato un bug all’interno di un codice open source sviluppato da Mozilla.

Tale codice era usato nel sistema operativo iOS di iPhone per tutt’altri scopi (serviva a gestire il collegamento di alcuni accessori alla porta Lightning), ma permetteva di dare il via ad una catena di attacchi al telefono al termine dei quali era possibile violare la crittografia di iMessage.

Nessuno potrà mai dire con certezza se Apple fosse al corrente di quella back door, ma una cosa è certa: fino ad ora nessun sistema di crittografia si è rivelato sicuro al 100%.

La colpa, naturalmente, non è della crittografia stessa bensì delle funzioni del telefono che la attivano e disattivano all’occorrenza. Negli anni successivi, in ogni caso, l’FBI è riuscita a violare altri telefoni iPhone.

Elon Musk e la battaglia per il free speech

In questa battaglia non poteva mancare il parere, come sempre polemico, di Elon Musk. Il padrone di X (ex Twitter) ci ha messo poco a commentare l’arresto del CEO di Pavel Durov e lo ha fatto per difenderlo, inizialmente, e per mettere le mani avanti, subito dopo.

Musk ha ben presto lanciato un hashtag #FreePavel che sembra tanto una campagna d’opinione e ha pubblicato numerosi post di solidarietà.

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Poi, rispondendo ad alcuni follower, Musk ha affermato di avere il timore che la prossima piattaforma ad essere messa nel mirino in Europa sarà proprio la sua, cioè X, perché da quando lui è diventato il proprietario l’ex Twitter è diventata la patria del "free speech".

Cioè della libertà di parola, intesa però da Musk come totale libertà di dire qualsiasi cosa, prendendosene individualmente ogni responsabilità.

E sta proprio qui il nocciolo della questione, che prima o poi dovrà essere affrontata in modo chiaro: è meglio avere una piattaforma che, seppur in modo anonimo e automatizzato, legge e censura ciò che scrivono i suoi tenti, al fine di evitare crimini, oppure è meglio lasciare totale libertà agli utenti, compresa la libertà di compiere reati?

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