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SCIENZA

Bioplastiche, si degradano davvero? Quello che non sappiamo

I materiali "bio" inquinano quanto la plastica? Secondo uno studio del CNR è così, soprattutto quando si parla di rifiuti che finiscono in mare.

Inquinamento e bioplastiche secondo il CNR Fonte foto: 123RF - marcobonfanti

La plastica ha i suoi vantaggi: è leggera, versatile, facile da impiegare in processi industriali ed economica. Tra tutte le merci presenti oggi sul mercato europeo, oltre il 50% è confezionato con packaging realizzato in plastica: nonostante esistano le alternative “bio”, infatti, la plastica tradizionale è ancora oggi la prima scelta dei produttori di prodotti deperibili.

D’altro canto, le bioplastiche sembrano non mostrare tutti i vantaggi che speravamo si potessero applicare alla difesa dell’ambiente, soprattutto se guardiamo all’inquinamento da plastica degli ecosistemi marini.

Plastiche e bioplastiche negli oceani

Uno studio del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), pubblicato sulla rivista internazionale Polymers, dimostra che i tempi di degradazione delle cosiddette bioplastiche non sono così diversi da quelli dei polimeri plastici tradizionali.

Quello del CNR è un esperimento ancora in corso, della durata complessiva di tre anni, durante i quali vengono monitorati i tempi di degradazione di quattro diversi composti chimici, chiusi in speciali gabbie posizionate in mare a una profondità di circa 10 metri.

Studiare tempi e modalità di degradazione delle materie plastiche, si legge nella ricerca, è un tema di fondamentale importanza “perché una migliore comprensione di questi fenomeni può contribuire allo sviluppo di azioni di mitigazione”.

Inoltre, diversi studiosi hanno già evidenziato alcuni dei fattori che rallentano la degradazione delle plastiche in mare, tra le cause del grave inquinamento che interessa gli oceani, dai poli all’equatore. Se “oltre il 75% dei rifiuti acquatici sono costituiti da plastica” è anche perché le basse temperature, l’azione dell’acqua salata e il ridotto apporto di raggi solari rendono i polimeri dispersi in acqua praticamente indistruttibili.

Così, i ricercatori del CNR hanno deciso di monitorare la velocità di degradazione di quattro materie plastiche tra le più utilizzate: due polimeri tradizionali, HDPE (polietilene ad alta densità) e PP (polipropilene), e due bioplastiche, cioè PLA e PBAT. Il primo, l’acido polilattico, è un polimero dell’acido lattico ed è il materiale più utilizzato, per esempio, per la stampa 3D fatta in casa. Il PBAT, noto anche come polibutirrato o ecoflex, invece, è quello usato per il film trasparente del packaging di frutta e verdura e per le buste per la spesa biodegradabili.

Bioplastiche: si degradano davvero?

La decisione di sostituire i polimeri plastici con materiali biodegradabili è tra le tante soluzioni proposte per risolvere uno dei problemi più stringenti del secolo in corso, cioè l’inquietante – e sempre più stabile – presenza di tonnellate di plastiche nei nostri mari.

Ma non tutte le bioplastiche sono uguali: secondo l’European Bioplastics, un materiale può essere definito bioplastica se è di origine biologica, biodegradabile o entrambe le cose. È possibile, specifica l’istituto, che un materiale sia di origine 100% biologica ma non sia biodegradabile (è il caso del PET, per cui si stanno studiando soluzioni alternative), come può accadere l’inverso.

E l’esperimento del CNR sembra dimostrare proprio questo: “PLA e PBAT, dopo sei mesi, non hanno mostrato una degradazione significativa, cosa che li rende ininfluenti nella riduzione dell’inquinamento dell’ambiente marino”.

I risultati del CNR non fanno che confermare i sospetti già avanzati da altri studiosi: nel 2017 un esperimento condotto su diversi polimeri, bio e non-bio, evidenziò che in acqua soltanto il PLGA viene dissolto al 100%, non lasciando residui. Tutti gli altri polimeri, compresi quelli biologici, restano intatti per oltre 400 giorni: “i cosiddetti polimeri biodegradabili, sott’acqua e in condizioni naturali, non degradano”.

La sostituzione di bioplastiche ai “vecchi” materiali non deve ingannarci: senza un’attenzione capillare al riciclo della plastica (anche della bioplastica) e alla corretta gestione dei rifiuti, non sarà sufficiente passare al “bio” per salvare i nostri oceani.

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